Carita’

La carità è diventata stile di vita del credente, perché, la sera prima di morire, nell’ultima sua cena, Cristo ha lavato i piedi ai suoi discepoli e ha detto che il vero modo di amare è servire i fratelli (Gv 13). La carità è uno stile di vita assunto da chi ha occhi per vedere i bisogni dei fratelli e sa pescare, nel profondo di sé, l’amore con cui è stato amato da Dio, per effonderlo nel fratello. Saremo anche giudicati sulla carità, se leggiamo il Vangelo di Matteo (Mt 25,31-46). Ecco perché la carità è anche il segno della fede nel Dio invisibile. “Come fai a dire che ami Dio che non vedi, se non sai amare il fratello che vedi?” (1 Gv 4,20).
Non si può vivere una vita di parrocchia accontentandosi della Liturgia e della catechesi. Bisogna che sia visibile anche la carità, tanto quanto la Liturgia e la catechesi. Certo ad amare non c’è un limite. Sarebbe più facile avere solo i comandamenti del decalogo che proibiscono di compiere il male. Ma Cristo ci ha messo nel disagio di amare. È un disagio perché il fratello che ti vede compiere un gesto d’amore preferirebbe che tu lo facessi a modo suo e non tuo. È disagio perché, se compi un gesto di bene, il fratello che ti vede, ti chiede come mai non hai fatto seguire anche ciò che sarebbe potuto venire dopo. Ti chiede come mai ti sei fermato a tanto.
Ma la carità è frutto della libertà. Fossimo sempre liberi, saremmo sempre disposti ad amare. La carità va a braccetto con la libertà, perché non si può obbligare all’amore. Anche l’amore scaturisce dalla libertà e diventa gratuità.
La Parrocchia ha bisogno di un gruppo visibile di persone che sappiano leggere i bisogni della popolazione o di singole famiglie per cercare, insieme, una risposta d’amore. Chi ha tempo libero lo metta a disposizione per la visita ai malati, per consolare gli afflitti, per dare una svolta a chi vede tutto nero dopo un lutto improvviso. C’è bisogno di riempire la solitudine di persone che vivono sole o sono impedite dalla debilità e vivono in istituti o presso i familiari. C’è bisogno di accompagnare persone ai gruppi di ascolto, c’è bisogno di passare la notte con persone che, disorientate, si alzano a tutti gli orari della notte. La Parrocchia dovrebbe offrire tante persone in base ai tanti bisogni di “povertà” non finanziaria. Non bisogna perdere mai di vista il riferimento a Cristo e al Vangelo. Occorre una spiritualità per vivere la carità. Questa spiritualità è fatta di gioia di frequentare il Gruppo per nutrirsi di meditazione e di preghiera, della Parola di Dio e dell’Eucaristia. La vera spiritualità parte dalla frequenza all’Eucaristia festiva per giungere anche alla Messa feriale; parte dalla comunità che si esprime “in un cuor solo e un’anima sola”.
Questa è la marcia in più di coloro che fanno scaturire da Cristo la capacità d’amare e non restano solo professionisti della socialità. Le persone che sono professioniste nel campo assistenziale e sociale sono benvenute nei gruppi di attività caritative parrocchiali, perché sapranno dare quella competenza che il semplice volontario non potrà mai avere. Saremmo a disagio se organizzassimo una vita parrocchiale che non toccasse gli aspetti sociali e caritativi. Mancheremmo nei confronti del Cristo che ha donato a noi e a tutti i battezzati l’amore come comandamento.

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